– Ieri – confessai – mi parve un nome piuttosto corto.
– E non pensi che se egli volesse, ne avrebbe uno più lungo – disse mia zia con aspetto più altero. – Babley... il signor Riccardo Babley... Questo è il vero nome di quel signore.
Stavo per dire, pieno di rispetto e confuso per la familiarità della quale già m’ero reso colpevole, che avrei dovuto chiamarlo col suo vero nome, quando mia zia continuò:
– Ma non lo chiamare così, per carità. Egli non può sopportare quel nome. È un capriccio... Benché, poi, io non creda che sia veramente capriccio... il Cielo sa com’è stato maltrattato... È stato molto maltrattato da una persona che si chiama come lui, ed egli ha concepito per quel nome un’antipatia mortale. Qui si chiama Dick, e dovunque ora... se andasse in qualche parte: cosa che non fa. Così, bada, ragazzo mio, non chiamarlo altrimenti che signor Dick.
Promisi di ubbidire, e andai su col mio messaggio, pensando, frattanto, che se il signor Dick aveva continuato a lavorare al suo memoriale con quella velocità, alla quale l’avevo veduto lavorare io, passando innanzi all’uscio della sua stanza, mentre andavo abbasso, egli doveva probabilmente essere un gran tratto innanzi. Lo trovai assorto nel memoriale con una lunga penna e con la testa che rasentava la carta. Era così intento e concentrato che ebbi tutto l’agio d’osservare, prima ch’egli si accorgesse della mia presenza, un grande aquilone di carta in un angolo, una montagna di manoscritti, un gran numero di penne e specialmente una gran quantità d’inchiostro (c’era un vero battaglione di bottiglie da mezzo gallone l’una).
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