Ciò che mi aveva detto nella sua stanza, di credere, cioè, di diffondere le notizie che vi erano incollate, coi vecchi fogli di tutti i suoi precedenti memoriali lasciati a mezzo, aveva potuto, forse, qualche volta passargli per la mente in casa, ma non fuori, nell’atto di guardare l’aquilone in cielo e sentirsi tirare violentemente la corda in mano. Egli non sembrava mai più sereno d’allora. Solevo pensare, sedendogli accanto la sera, su un poggetto verde, e vedendolo seguir l’aquilone nell’aria calma, che questo gli liberasse lo spirito da ogni confusione (era una mia fantasticheria infantile), e lo portasse alto nei cieli. Mentr’egli arrotolava la corda, e l’aquilone, calando gradatamente, usciva dalla luce del tramonto per agitarsi sul terreno e giacervi come un uccello morto, sembrava ch’egli si svegliasse pian piano da un sonno. Ricordo di averlo veduto raccogliere l’aquilone e guardarsi intorno con aria così smarrita, quasi fossero caduti insieme, che io lo compiangevo con tutto il cuore. Mentre si faceva sempre più forte la mia amicizia, e più stretta la mia intimità col signor Dick, non rimanevo indietro nelle grazie della sua fedele amica, mia zia. Ella mi prese tanto a cuore che, nel termine di poche settimane, abbreviò il mio nome adottivo di Trotwood in quello di Trot, ed io fui, inoltre, incoraggiato a sperare che se le cose fossero continuate ad andare come erano incominciate, avrei potuto mettermi allo stesso livello, nel suo affetto, con mia sorella Betsey Trotwood.
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