– Trot – disse mia zia una sera, dopo che, secondo il solito, fra lei e il signor Dick era stato messo il giuoco della dama – non dobbiamo dimenticare la tua educazione.
Questa era l’unica causa della mia inquietudine, e fui incantato di quella allusione di mia zia.
– Ti piacerebbe di andare a scuola a Canterbury? – disse mia zia.
Risposi che mi sarebbe piaciuto moltissimo, anche perché così sarei rimasto vicino a lei.
– Bene – disse mia zia – ti piacerebbe di andarvi domani?
Oramai, non essendo più ignaro della rapidità di tutte le risoluzioni di mia zia, non fui sorpreso da una proposta così improvvisa, e dissi: «Sì».
– Bene – disse mia zia di nuovo. – Giannina, va’ a fissare il cavallino grigio e la vetturetta per domani alle dieci, e prepara questa sera le valige del signorino.
Sussultai, a quest’ordine, di viva gioia; ma il cuore mi punse per il mio egoismo, assistendo all’effetto prodotto da esso sul signor Dick, che era tanto afflitto all’idea della nostra separazione e giocò per conseguenza così male, che mia zia, dopo avergli dati parecchi buffetti d’ammonimento con le pedine sulle giunture delle dita, chiuse la scatola e dichiarò di non voler giocare più con lui. Ma il signor Dick, sentendo da mia zia che io sarei ritornato qualche volta il sabato, e che egli avrebbe potuto qualche volta venire a vedermi il mercoledì, riprese coraggio e fece voto di fabbricare per quell’occasione un aquilone di dimensioni molto più grandi di quello esistente. La mattina era abbattuto di nuovo, e si sarebbe sostenuto col darmi tutto il denaro che aveva in tasca, oro e argento compresi; ma mia zia s’interpose e limitò il dono a cinque soli scellini, i quali, per le vive preghiere di lui, furono portati a dieci.
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