Ci separammo al cancello del giardino nella maniera più affettuosa, e il signor Dick non rientrò in casa che quando ci perse di vista.
Mia zia, che era perfettamente indifferente all’opinione pubblica, guidava il cavallino grigio a traverso Dover con mano maestra, sedendo rigida e impettita come il cocchiere di un principe, e seguendo con occhio fermo tutti i movimenti del cavallo, risoluta a non lasciarlo fare a suo capriccio in nessun modo. Quando arrivammo in una strada di campagna, però, gli permise qualche libertà e, gettando uno sguardo su me, che stavo in una valle di guanciali accanto a lei, mi domandò come stessi.
– Veramente bene, zia, grazie – io dissi.
Ella ne fu così soddisfatta, che per aver ambo le mani occupate, mi fece una carezza sulla testa col manico dello staffile.
– È una scuola grande, zia? – domandai.
– Non so – disse mia zia. – Andremo prima dal signor Wickfield.
– Ha una scuola? – domandai.
– No, Trot, ha un ufficio.
Non chiesi altre informazioni sul signor Wickfield, perché ella non sembrava disposta a darmene, e parlammo d’altro, finché non arrivammo a Canterbury, dove, essendo giorno di mercato, mia zia ebbe una bella occasione per cacciare il cavallino grigio fra carri, panieri, ortaglie e chincaglieria minuta. Gli strettissimi serpeggiamenti che esso faceva, ci attirarono dalla gente lì intorno una bella varietà d’apostrofi non sempre complimentose; ma mia zia andava innanzi con perfetta indifferenza, e avrebbe attraversato, credo, con la stessa freddezza un paese ostile.
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