Aveva le spalle alte e ossute; era vestito decentemente di nero, con una minuscola cravatta bianca; era abbottonato fino alla gola; e aveva le mani così lunghe, magre e scheletrite, che attrassero particolarmente la mia attenzione, quand’egli si mise accanto al cavallo, a carezzargli il muso e a guardar noi nella vetturetta.
– È in casa il signor Wickfield, Uriah Heep? – disse mia zia.
– Sì, signora – disse Uriah Heep: – favorite entrare. – E indicò con la lunga mano la stanza che intendeva.
Scendemmo; e lasciandogli la custodia del cavallino, entrammo in un lungo salotto basso di prospetto sulla via. Dalla finestra vidi Uriah Heep soffiare nelle narici del cavallo e immediatamente coprirgliele con la mano, come se gli stesse facendo un incantesimo. Di fronte a un antico e grande caminetto erano due ritratti: l’uno d’un signore dai capelli grigi, ma per nulla affatto vecchio, e dalle sopracciglia nere, occupato a guardare in certe carte, tenute insieme da un nastrino rosso; l’altro, d’una signora, che mi fissava con espressione di calma e di dolcezza.
Mi voltavo attorno, in traccia, credo, del ritratto di Uriah, quando una porta all’estremità della stanza si aperse, e n’entrò un signore, alla cui vista mi volsi di nuovo al ritratto già menzionato, per assicurarmi che non fosse uscito dalla cornice. Ma il ritratto non s’era mosso; e mentre il signore veniva verso di noi alla luce, vidi ch’egli era un po’ più vecchio del ritratto.
– Signora Betsey Trotwood – disse il signore – favorite, prego.
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Wickfield Uriah Heep Uriah Heep Uriah Heep Uriah Betsey Trotwood
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