Alle cinque, l’ora del pasto del signor Wickfield, avevo già più coraggio, ed ero già disposto a far onore alla tavola. La tavola era soltanto apparecchiata per noi due; ma Agnese, che aspettava nel salotto, venne giù con suo padre, e gli sedette di fronte. Non potevo credere ch’egli desinasse senza di lei.
Dopo desinare, andammo di nuovo nel salotto, e nel cantuccio più comodo; Agnese portò dei bicchieri per il padre e una bottiglia di vino di Porto. Egli non vi avrebbe trovato, credo, la solita fragranza, se fosse stata portata da altre mani.
E se ne stette colà per due ore a bere, e in abbondanza; mentre Agnese sonava il pianoforte, o lavorava, o conversava con lui e con me. Egli si mostrò, per lo più, allegro e spensierato con noi; ma a volte posava gli occhi sulla figliuola, e rimaneva in silenzio a meditare. Mi parve che ella, osservandolo in quei momenti, cercasse subito di distrarnelo con una domanda o una carezza. Allora, egli usciva dalla sua distrazione, e beveva altro vino.
Agnese fece il tè, e lo servì; e il tempo passò, come dopo il desinare, fino all’ora d’andare a letto. Allora il padre se la prese fra le braccia e la baciò; poi, quando ella se ne fu andata, fece accendere le candele nello studio. Anch’io allora andai a coricarmi.
Ma nel corso della serata, ero arrivato fino alla porta e avevo fatto qualche passo fuori per dare un’altra occhiata alle vecchie case e alla grigia cattedrale; e pensavo alla traversata di quella città durante il mio viaggio, e, al mio passaggio innanzi a quella dove poi avrei abitato.
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