– Nessuno – rispose il dottore.
– Io ho il dovere di credervi, e naturalmente vi credo – disse il signor Wickfield. – Se l’avessi saputo prima, il mio incarico sarebbe stato molto semplificato. Ma confesso che credevo diversamente.
Il dottor Strong lo guardò dubbioso e curioso; ma poi quasi immediatamente mostrò un sorriso che mi rianimò: perché era pieno di amabilità e di dolcezza e di tanta semplicità – visibile inoltre in tutti i modi del dottore, quando se ne scioglieva certo ghiaccio con cui lo velavano lo studio e la meditazione – che attraeva e incoraggiava uno scolaro giovinetto come me. Ripetendo «sì» e «perfettamente indifferente», e altre brevi assicurazioni con lo stesso scopo, il dottor Strong trotterellava innanzi a noi con passo stranamente ineguale; ma il signor Wickfield aveva assunto un’aria grave, e scoteva il capo, come seguendo un suo ragionamento intimo, senza avvedersi ch’io lo osservavo.
La sala della scuola era piuttosto vasta, nell’angolo più tranquillo dell’edificio, di fronte a una mezza dozzina delle grandi urne di pietra pomposamente schierate sul recinto, e con la vista d’un vecchio giardino solitario, appartenente al dottore, dove, contro un muro al sole, già maturavano le pesche. Sul prato, al di sotto della finestra, v’erano, in due casse, due piante d’aloe; le foglie larghe e dure di quelle piante (che sembravano di latta dipinta) si sono associate d’allora nel mio spirito con l’idea del silenzio e del raccoglimento. Più d’una ventina di ragazzi avevano la testa sui libri quando noi entrammo; ma si levarono per salutare il dottore, e rimasero in piedi, vedendo me e il signor Wickfield.
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