Agnese, seduta accanto a lui, sonò il pianoforte, e lavorò, e conversò, e giocò a domino con me. All’ora consueta fece il tè; e dopo, quando portai lì i miei libri, li esaminò, e mi mostrò ciò che ne sapeva (che non era poco, benché ella dicesse altrimenti), e qual fosse il miglior modo d’imparare a intenderli. La riveggo ancora, con le sue maniere modeste, calme, ordinate; riascolto la sua bella e tranquilla voce, mentre scrivo queste parole. L’effetto benefico che ella eserciterà su di me più tardi, comincio già a sentirlo nel segreto del cuore. Io amo l’Emilietta, e non Agnese – non nello stesso modo, intendo; – ma sento che dov’è questa, è la pace, la bontà e la sincerità; e che la blanda luce della finestra dipinta, veduta in chiesa lungo tempo fa, l’avvolge sempre, e avvolge me pure quando le sono accanto, e avvolge ogni cosa intorno.
Giunto il tempo di andare a letto, ella ci lasciò, e io stesi la mano al signor Wickfield, per ritirarmi anch’io. Ma egli mi trattenne, dicendomi:
– Ti piace di rimaner con noi, Trotwood, o d’andare altrove?
– Di rimanere – risposi subito.
– Certo?
– Se non vi dispiace, se posso!
– Temo che la vita che meniamo qui, ragazzo mio, debba esserti uggiosa – egli disse.
– Non più uggiosa per me che per Agnese, signore. Per nulla affatto uggiosa.
– Che per Agnese! – ripeté andando pianamente verso il caminetto, e appoggiandovisi di contro. – Che per Agnese!
Egli aveva bevuto tanto vino quella sera, credo, che aveva gli occhi iniettati di sangue. Non che io potessi vederli in quel momento, perché li teneva abbassati e riparati dalla mano; ma li avevo osservati pochi istanti prima.
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