XVII.
UN INCONTRO
Mi sembra che dal momento della mia fuga non mi sia più occorso di far menzione di Peggotty; ma, naturalmente, non appena mi fui stabilito a Dover, le scrissi una lettera, e poi, allorché mia zia m’ebbe assunto formalmente sotto la sua protezione, gliene scrissi un’altra più lunga coi più minuti particolari d’ogni circostanza. Al mio ingresso nella scuola del dottor Strong, le scrissi ancora, intrattenendola particolarmente della mia perfetta soddisfazione e di tutte le speranze che s’erano accese in me. Spendendo il denaro regalatomi dal signor Dick non avrei sentito lo stesso piacere che provai restituendo per posta a Peggotty, in quella stessa lettera, la mezza ghinea da lei prestatami; e soltanto allora le narrai il fatto del giovinastro dall’asino e dal carretto.
A quelle comunicazioni Peggotty rispose con la stessa prontezza, se non con la stessa concisione, dell’impiegato d’un commerciante. I suoi massimi poteri d’espressione (che sulla carta non erano grandi) si esaurirono nel tentativo di scrivere ciò che sentiva sull’argomento del mio viaggio. Quattro pagine di principi di frasi incoerenti e riboccanti d’interiezioni, e che non concludevano che con macchie d’inchiostro, non furono sufficienti a confortarla in qualche modo. Ma le macchie d’inchiostro mi parlarono meglio d’un abile discorso; perché mi dimostravano – e che avrei potuto desiderare di più? – che Peggotty scrivendomi aveva pianto.
Indovinai, senza molta fatica, ch’ella non poteva ancora adattarsi all’idea di trattar gentilmente mia zia.
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