Mi sembra che se quei due avessero potuto passeggiare eternamente così il mondo non sarebbe andato peggio; e che migliaia di cose intorno alle quali fa tanto scalpore non valgano per esso e per me la metà di quelle passeggiate.
Presto, Agnese fu annoverata fra gli amici del signor Dick; il quale venendo spesso a trovarmi a casa, fece anche la conoscenza di Uriah. L’amicizia fra lui e me s’andava continuamente accrescendo, e si manteneva su questa base singolare: che, mentre veniva espressamente a sorvegliarmi in qualità di tutore, il signor Dick finiva sempre col consultare me in ogni più piccolo dubbio che gli sorgesse, e col regolarsi invariabilmente sui consigli che gli davo io; non solo per un gran rispetto alla mia ingenita sagacia, ma per la considerazione che io la ereditavo in gran parte da mia zia.
Un giovedì mattina, mentre m’accingevo, prima di tornare a scuola (avevamo un’ora di lezione prima della colazione), ad andare col signor Dick dall’albergo all’ufficio della diligenza, incontrai per strada Uriah che mi ricordò la promessa d’andare a bere il tè con lui e la madre, aggiungendo, con una contorsione: «Ma io non aspettavo che la manteneste, signorino Copperfield, noi siamo così umili».
In realtà non ero stato ancora in grado di comprendere se Uriah mi piacesse o mi dispiacesse: ero ancora nell’incertezza, e nella via mi misi a guardarlo fisso in faccia. Ma mi parve mal fatto dargli il pretesto di credere che fossi superbo, e risposi che non aspettavo che d’essere invitato.
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