Per tre o quattro giorni rimango a casa, triste spettacolo della disfatta, con una benda verde sugli occhi. M’annoierei a morte, se Agnese, che m’è come una sorella e mi consola e mi serve da lettrice, non mi facesse passare il tempo rapidamente e beatamente. Agnese ha tutta la mia fiducia, sempre; e le narro del macellaio, e dei torti di cui s’è reso colpevole verso di me. Ella crede che non avrei potuto fare diversamente da quello che ho fatto, ma trema e rabbrividisce pensando che ho affrontato il macellaio.
Passa il tempo senza che me ne accorga. Adams non è più caposquadra, ed è molto che non lo è più. Adams ha lasciato la scuola da tanto tempo, che quando si presenta a fare una visita al dottor Strong, non sono in molti con me a conoscerlo. Adams si prepara per il foro, e fra poco sarà avvocato, e porterà la parrucca. Mi sorprendo di trovarlo più mite di quanto avessi immaginato, e meno solenne nell’aspetto. Non ha neppure fatto vacillare il mondo, il quale va innanzi (a quanto ne so) quasi com’egli non ci fosse ancora entrato.
Una lacuna, nella quale marciano i guerrieri della poesia e della storia in magnifica innumerevole legione – e poi, il capo della classe sono io! E guardo dall’alto la schiera dei ragazzi al di sotto di me, con benevola condiscendenza quelli che mi rammentano l’immagine mia, la prima volta che fui ammesso in iscuola. Quel piccino che io fui una volta mi par non facesse parte di me stesso; lo ricordo come un non so che lasciato indietro nella strada della vita – più come una fase da me sorpassata che come qualche cosa di concreto in cui fossi incorporato – e penso a lui quasi come a un estraneo.
| |
Agnese Strong
|