Se in tutta la giornata posso farle una volta un inchino (ho il dovere di salutarla, conoscendo il signor Larkins), sono felice. Di tanto in tanto ho la grazia d’un saluto. La rabbiosa disperazione che soffro la sera del ballo delle Corse, dove so che la maggiore delle signorine Larkins andrà a ballare con gli ufficiali della guarnigione, dovrebbe avere qualche compenso, se al mondo vi fosse una giustizia dalle mani eque.
La passione mi toglie l’appetito, e mi fa portare di continuo la nuovissima cravatta di seta. Non trovo requie che nell’indossare i miei migliori abiti, e nel farmi lucidare parecchie volte al giorno le scarpe. Mi pare, allora, d’esser più degno della maggiore delle signorine Larkins. Tutto ciò che appartiene a lei, o si riferisce a lei, per me è prezioso. Il signor Larkins (un vecchio arcigno con un doppio mento e sotto la fronte un occhio immobile) è per me carico d’interesse. Quando non posso incontrare sua figlia, vado dove probabilmente incontrerò lui. A dire: «Come state, signor Larkins? Le signorine e tutta la famiglia stanno bene?» mi par così gravido di senso che arrossisco.
Penso all’età che ho. Dico che non ho ancora diciassette anni e che diciassette anni forse son pochi per la maggiore delle signorine Larkins; ma che importa? E poi, fra breve ne avrò ventuno. Vado regolarmente la sera a passeggiare innanzi alla casa del signor Larkins, benché con lo strazio in cuore, per vedervi entrare gli ufficiali, o per sentirli chiacchierar su nel salotto, dove la maggiore delle signorine Larkins suona l’arpa.
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