XIX.
GUARDO IN GIRO E FACCIO UNA SCOPERTA
Al termine dei miei studi e all’ora di abbandonare la scuola del dottor Strong, non so se in fondo al cuore fossi lieto o triste. V’avevo trascorso un periodo felice, sentivo un grande affetto per il dottore, e occupavo un posto eminente e segnalato in quel piccolo mondo. Per queste ragioni mi dispiaceva d’andarmene; ma per altre ragioni, non tutte serie, v’ero costretto. Vaghe idee d’essere un giovane libero delle proprie azioni, delle cose meravigliose che quel magnifico animale poteva vedere e fare, e dei meravigliosi effetti che non poteva mancare di produrre nel mondo dei grandi, m’attraevano molto. Pesavano tanto queste considerazioni visionarie sul mio spirito giovanile, che mi sembra, a quanto ora credo, che lasciassi la scuola senza rimpianti. Quella separazione non fece su me l’impressione di altre separazioni. Tento invano di ricordare ciò che sentissi allora, e le circostanze della partenza; ma certo non fu un momento grave della mia vita. Credo che la prospettiva che mi s’apriva dinanzi mi avesse confuso. So che il mio passato di ragazzo pesava poco o nulla allora sulla bilancia; e che la vita non era altro che una gran bella fiaba, che m’accingevo a leggere.
Mia zia ebbe molti gravi colloqui con me sulla professione alla quale mi sarei dedicato. Per un anno o più m’ero sforzato di trovare una risposta soddisfacente alla domanda ch’ella spesso mi ripeteva: «Che ti piacerebbe d’essere?». Ma io non avevo, a quanto mi sembrava, particolare inclinazione per nulla.
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Strong
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