In una parola, ero libero di fare ciò che volevo, per tre o quattro settimane; e non altra condizione era imposta alla mia libertà che l’anzidetto osservare e riflettere un poco, e l’obbligo di scriverle tre volte la settimana, narrandole fedelmente tutto.
Andai prima a Canterbury, per congedarmi da Agnese e dal signor Wickfield (nella loro casa non avevo abbandonato ancora la mia vecchia stanza), e anche dal buon dottore. Agnese fu molto lieta di rivedermi, e mi disse che da quando me n’ero andato, la casa non si riconosceva più.
– Neppure io son più quello, quando son lontano – io dissi. – Sembra che mi manchi la destra, quando non vi veggo. Non è dir molto, perché non c’è testa né cuore nella destra. Chiunque vi conosce, consulta voi, ed è guidato da voi, Agnese.
– Chiunque mi conosce, mi vizia, io credo – ella rispose con un sorriso.
– No, perché voi siete come nessun’altra. Voi siete così buona, e di carattere così dolce. Voi avete un’indole così nobile, e avete sempre ragione.
– Parlate – disse Agnese, scoppiando in una bella risata, mentre lavorava – come se io fossi l’ex-signorina Larkins.
– Via! non sta bene abusare delle mie confidenze – risposi, arrossendo al ricordo della mia azzurra incantatrice. – Ma io confiderò sempre in voi, precisamente come prima, Agnese. Non posso perderne l’abitudine. Tutte le volte che avrò qualche affanno o, che m’innamorerò, ve lo dirò sempre, se voi me lo permettete... anche quando m’innamorerò sul serio.
– Come? vi siete sempre innamorato sul serio! disse Agnese, sempre ridendo.
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