– Ditemi che cos’è – ella disse con voce piana.
– Credo... Debbo essere sincero, Agnese?... Voi sapete quanto gli voglia bene.
– Sì – disse.
– Credo che non gli giovi quella sua abitudine, diventata sempre più forte, dal primo giorno della mia venuta qui. Spesso è agitato, o immagino che sia così.
– Non è immaginazione – disse Agnese, scotendo il capo.
– La mano gli trema, la parola gli è penosa, e i suoi occhi hanno uno sguardo strano. Ho notato che quando egli non è nelle sue condizioni naturali, vien sempre chiamato per questa o quella faccenda.
– È Uriah! – disse Agnese.
– Sì, e il sentimento di non essere in grado di sbrigarla, o di non averla compresa, o di essersi fatto vedere in quello stato, par lo sconvolga così, che il giorno dopo sta peggio, e il seguente peggio ancora, e così ha assunto quell’aria che gli si nota di spossatezza e di smarrimento. Non v’impensierite per ciò che dico, Agnese, ma sere fa lo vidi, in simile condizione, abbandonare la testa sulla scrivania, e mettersi a piangere come un bambino.
La mano di lei mi sfiorò le labbra, mentre ancora parlavo, e l’istante dopo ella era andata incontro al padre sulla soglia dell’uscio, e aveva poggiato la testa sulla spalla di lui. L’espressione del viso di lei, nell’atto che entrambi mi guardavano, era molto commovente. Vi era nel suo sguardo tal profondo amore e tanta gratitudine per lui in compenso dell’amore e della sollecitudine ch’egli le dimostrava; v’era una così fervida preghiera per me di trattarlo con indulgenza anche nell’intimo pensiero, e di non dar posto a nessun giudizio amaro contro di lui; ella era così orgogliosa del padre, e insieme, così devota, e pure così pietosa e dolente, e così fiduciosa della mia simpatia, che nessuna parola avrebbe potuto dirmi tanto, o commuovermi di più.
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