In quell’atto mi chiese che volessi bere; e dopo che gli ebbi risposto mezza pinta di vino di Xères, dové credere, penso, che quella fosse l’occasione favorevole di trarre quella misura di vino dai fondi avanzati e muffiti di parecchie bottiglie. E non è un’ipotesi la mia, perché mentre leggevo il giornale, l’osservai dietro un basso tramezzo di legno, che costituiva il suo appartamento privato, versar affaccendatissimo in uno il contenuto di un gran numero di quei vasi, come uno speziale che preparasse una miscela. Quando venne il vino, mi parve svanito; e certamente conteneva più briciole di pane di quante se ne potessero onestamente concedere a un vino straniero genuino; ma fui così vile da berlo, e da non dire una parola.
Sentendomi poi in una gioiosa disposizione di spirito (dal che argomento che l’ubbriachezza in certi momenti non sia sempre spiacevole) risolsi d’andare a teatro. Scelsi il teatro del Covent Garden; e ivi dal fondo d’un palco nel centro vidi Giulio Cesare e la nuova pantomima. Mi fece un delizioso effetto aver dinanzi vivi tutti quei nobili romani, che entravano e uscivano per mio speciale divertimento, e non erano più i gravi soggetti di compiti che erano stati per me a scuola. Ma la realtà e il mistero dell’intera rappresentazione, l’influenza su di me della poesia, dei lumi, della compagnia, dei prodigiosi cambiamenti di splendide e fulgide scene, erano così abbaglianti, e m’aprirono tali sconfinate regioni di piacere, che quando a mezzanotte uscii alla pioggia fuori, mi parve di precipitare dalle nuvole, dove avevo vissuto per secoli una vita romanzesca, giù in un mondo miserabile e fangoso, che urlava, schizzava pillacchere, accendeva fiaccole, strepitava con le scarpe, lottava con gli ombrelli, urtava e travolgeva con le vetture da nolo.
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Xères Covent Garden Giulio Cesare
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