Gli diedi il buongiorno, e gli chiesi che ora fosse. Egli trasse di tasca il più rispettabile orologio che avessi mai veduto, e impedendo col pollice alla molla di sollevar violentemente il coperchio, guardò il quadrante come se stesse consultando un’ostrica sibilla, lo richiuse e disse, che, se non mi dispiaceva, erano le otto e mezzo.
– Il signor Steerforth sarà lieto di sapere come avete riposato, signore.
– Grazie – dissi – veramente benissimo. Il signor Steerforth sta bene?
– Grazie, signore, il signor Steerforth sta piuttosto bene. – Un’altra delle sue caratteristiche. Non usava mai superlativi. Una fredda e calma espressione media sempre.
– V’è qualche cosa che io posso aver l’onore di far per voi, signore? La campana d’avviso sonerà alle nove; la famiglia fa colazione alle nove e mezzo.
– Nulla, grazie.
– Ringrazio io voi, signore, se permettete; – e con questo, e con un piccolo cenno della testa, quando passò accanto al letto, come chiedendo scusa di avermi corretto, uscì, chiudendo la porta con somma delicatezza, come se mi fossi allora allora addormentato d’un sonno dal quale dipendesse la mia salvezza.
Ogni mattina avevo con lui esattamente la stessa conversazione: non mai una parola di più; non mai una parola di meno; e pure, invariabilmente, per quanto avessi potuto crescer nella stima di me stesso la sera innanzi, e avviarmi verso un’età più matura, per mezzo della compagnia di Steerforth, o per mezzo delle confidenze della signora Steerforth, o della conversazione della signorina Dartle, io diventavo, in presenza di quell’uomo rispettabile, come cantano i nostri poeti minori, «di nuovo bambino».
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