Siccome m’aveva trattato a scuola diversamente da tutti gli altri, io gioiosamente credevo che mi trattasse nella vita diversamente da qualunque altro suo amico. Credevo d’esser più vicino al cuor suo di chiunque altro e il mio ferveva per lui d’un affetto senza pari.
Egli aveva deciso di venir con me in campagna, e, arrivato il giorno della nostra partenza, stette un po’ in forse se prender o no Littimer con sé, ma poi risolse di lasciarlo a casa. Quell’essere rispettabile, soddisfatto della sua sorte, qualunque fosse, accomodò le nostre valigie, come se dovessero resistere all’urto dei secoli, sulla vetturetta che ci doveva trasportare fino a Londra; e accettò la mancia, che modestamente gli offersi, con perfetta tranquillità.
Dicemmo addio alla signora Steerforth e alla signorina Dartle, con molte grazie da parte mia, e molta cortesia da parte di quella devota madre. L’ultimo oggetto che vidi fu l’inconturbato sguardo di Littimer; carico come immaginavo, della tacita convinzione che io fossi veramente molto giovane.
Non mi sforzerò di descrivere ciò che sentii, tornando, sotto così favorevoli auspici, ai vecchi luoghi familiari. Vi andammo con la diligenza. Ero così inquieto, ricordo, anche per il nome di Yarmouth, che quando Steerforth disse, mentre attraversammo le viuzze oscure che conducevano all’albergo, che, a quanto gli pareva, il paese era una singolare e strana specie di buco tranquillo, fui estremamente compiaciuto. Andammo subito a letto (vidi un paio di uose e di scarpe accanto alla porta di Delfino, il mio antico conoscente) e facemmo collazione tardi nella mattinata.
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