Ella era nella cucina a preparare il desinare. Nel momento che picchiai alla porta, l’aprì e mi chiese che volessi. La guardai in viso sorridendo, ma ella non mi sorrise in risposta. Non avevo mai cessato di scriverle, ma erano sette anni da che non c’eravamo visti.
– È a casa Barkis? – dissi, fingendo di parlarle burbero.
– Sì – rispose Peggotty – ma è a letto coi reumi?
– Non va più a Blunderstone? – chiesi.
– Quando sta bene ci va – ella rispose.
– Voi non ci siete andata mai, signora Barkis?
Ella mi guardò più attentamente, e notai un rapido movimento delle sue mani l’una verso l’altra.
– Perché voglio fare una domanda intorno a una casa di Blunderstone che si chiama... si chiama... Il Piano delle Cornacchie – io dissi.
Ella arretrò d’un passo, e allargò le braccia con aria indecisa e sbigottita, come per allontanarmi.
– Peggotty! – le gridai.
Ella esclamò: «Mio caro Davy», e scoppiammo entrambi a piangere, abbracciandoci.
Non ho il cuore di dire quali stravaganze ella commettesse; i suoi scoppi di risa e di pianto; l’orgoglio e la gioia ch’ella mostrava; il dolore che quella di cui io sarei stato l’orgoglio e la gioia non potesse stringermi in un abbraccio affettuoso. A me non venne neppure in mente l’idea che fosse puerile rispondere con la mia commozione alla sua. Non ho mai pianto e riso in tutta la mia vita, neanche con lei, oso dire, con la libertà di quella mattina.
– Barkis sarà contento – disse Peggotty, asciugandosi gli occhi col grembiule: – gli farà più bene la tua venuta che un mucchio di cataplasmi.
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