E me ne sarei andato difilato in camera mia, se non li avessi trovati tutti raccolti nella cucina menzionata più d’una volta, e che s’apriva direttamente sulla strada.
La ragazza – la stessa che avevo veduta sulla spiaggia – era accanto al fuoco. Sedeva in terra, con la testa e un braccio su una sedia. Immaginai, da quell’atteggiamento, che l’Emilia si fosse allora allora levata da sedere; e che forse aveva tenuto in grembo la testa della povera abbandonata. Non scorgevo che un po’ del viso della ragazza, la quale aveva i capelli sciolti e scarmigliati, e sembrava li avesse disfatti di sua mano; ma vedevo che era giovanissima e di un bel colorito. Peggotty aveva pianto; aveva pianto l’Emilia. Non si disse una parola al nostro ingresso; e il tic-tac dell’orologio olandese accanto alla credenza sembrava, in quel silenzio, molto più forte del solito.
Parlò prima l’Emilia.
– Marta vuole; – ella disse a Cam – andare a Londra.
– Perché a Londra? – domandò Cam.
Egli stava ritto fra esse, guardando la ragazza prostrata con un sentimento di pietà, e pur con un certo disgusto per vederla in compagnia di quella a cui egli voleva tanto bene. Io non ho mai dimenticato quello sguardo. Cam e l’Emilia parlavano di Marta come se stesse male; in tono molto basso, ché, benché fosse poco più di un bisbiglio, si udiva distintamente.
– Meglio là che qui – disse forte una terza voce, quella di Marta, benché ella non si movesse. – Là nessuno mi conosce; qui mi conoscono tutti.
– Che farà là? – chiese Cam.
Essa levò la testa, lo guardò fisso per un momento; poi l’abbassò di nuovo, e si cinse col braccio il collo, come in un accesso di dolore o nel delirio della febbre.
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