La languida calma del luogo era rotta soltanto dallo scoppiettìo di quella stufa e dalla voce di uno dei dottori, che vagava lentamente a traverso una completa biblioteca di prove, fermandosi di tanto in tanto, durante il viaggio, nelle piccole osteriole degl’incidenti che incontrava per strada. Insomma, in tutta la mia vita, non m’ero trovato a un ricevimento familiare più tranquillo, più sonnolento, più antiquato, più vetusto, più noioso; e mi parve che dovesse fare l’effetto di un narcotico a chiunque ne facesse parte – tranne forse a chi domandava giustizia.
Soddisfatto del carattere meditativo di quel ritiro, informai il signor Spenlow che per quella volta avevo visto abbastanza, e poi raggiungemmo mia zia; in compagnia della quale me n’andai subito dal Commons, ma col sentimento, all’uscita dallo studio Spenlow e Jorkins, d’esser assai giovane, perché gli scrivani si urtavano l’un l’altro per additarmi con la punta delle loro penne.
Arrivammo a Lincoln’s Inn Field senza altre avventure, tranne l’incontro d’un asino, attaccato al carretto d’un fruttivendolo, che destò tristi rimembranze in mia zia. Giunti sani e salvi all’albergo, discutemmo a lungo sui miei progetti; e giacché sapevo ch’ella ardeva dal desiderio di trovarsi a casa e che, fra la paura dell’incendio, e quella dei borsaiuoli, e la ripugnanza per i cibi, non stava volentieri a Londra neanche per mezz’ora, la sollecitai a non temere per me, e di lasciare che provvedessi io stesso, anche per ricerca di un alloggio.
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