Vi era abbondanza di luci, v’era musica, vi erano signore nei palchi, e non so che altro. Mi sembrava che tutto l’edificio, a vedere le strane oscillazioni che faceva quando tentavo di fissarlo, stesse imparando il nuoto.
Al cenno di qualcuno, decidemmo d’andar giù nei palchi delle signore. Vidi un signore, inappuntabilmente vestito, sdraiato su un divano, con un binocolo fra le dita, passarmi innanzi agli occhi, e poi la mia persona in piedi in uno specchio. Fui quindi spinto in uno di quei palchi, e mi trovai a dir qualche cosa mentre mi sedevo, e alcune persone intorno gridarono a qualcuno: «Silenzio!», e alcune signore mi gettarono delle occhiate d’indignazione, e – che? sì! – scorsi Agnese seduta dinanzi a me nello stesso palco, fra una signora e un signore, che non conoscevo. Veggo ora il suo viso, meglio di allora, oso dire, volgersi verso di me con una espressione incancellabile di rammarico e di stupore.
– Agnese! – dissi, goffamente. – Bontàdelcielo! – Agnese!
– Zitto! Per carità! – ella rispose, e io non sapevo indovinare perché. – Non disturbate. Guardate lo spettacolo.
Tentai a quell’ordine di stare attento allo spettacolo, e di udire qualche cosa di ciò che si diceva sulla scena, ma invano. Guardai lei di nuovo, e la vidi nascondersi nel suo cantuccio, e mettersi la mano guantata alla fronte.
– Agnese – io dissi: – hopaurachevisentiatemale.
– No, no, non pensate a me, Trotwood, – ella rispose. – Sentite! Ve n’andate via subito?
– Andarviasubito? – ripetei.
– Sì.
Avevo la sciocca idea di rispondere che avevo intenzione di aspettarla, per darle il braccio all’uscita.
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