.. » ma a questo punto la interruppi. Provai persino la poesia. Cominciai un biglietto in versi di sei sillabe, e lo piantai. Dopo molti altri tentativi scrissi: «Mia cara Agnese. La vostra lettera somiglia perfettamente a voi, e che cosa di più commendevole mi sarebbe possibile dire? Verrò alle quattro. Affettuosamente e tristemente. T. C.». Con questo messaggio (che fui venti volte sul punto di farmi ridare, appena m’uscì dalle mani) finalmente il fattorino partì.
Se gli altri impiegati del Commons durarono quel giorno solo la metà delle mie sofferenze, credo sinceramente che scontassero tutti i loro peccati per la parte che si beccavano di quel vecchio e fradicio formaggio ecclesiastico. Benché lasciassi l’ufficio alle tre e mezzo, e vagassi pochi minuti dopo intorno al luogo dell’appuntamento, l’ora stabilita era già passata da più di un quarto d’ora, secondo l’orologio di Sant’Andrea di Holborn, prima che avessi il coraggio di tirare il cordone del campanello a sinistra sulla porta del signor Waterbrook.
Gli affari professionali di casa Waterbrook venivano trattati a pianterreno, e quelli d’ordine più elevato (dei quali ve n’eran molti) nel piano di sopra. Fui condotto in un salottino molto bello ma piuttosto piccolo, al cospetto di Agnese, che sedeva lavorando a una borsetta.
Ella aveva un’aria così buona e calma, e mi ricordava con tanta vivezza i giorni di fresca innocenza a Canterbury, in contrasto con lo spettacolo d’abbrutimento che le avevo presentato due sere innanzi, che, non visto da alcuno, cedetti al rimorso e alla vergogna, e – insomma, mi comportai come uno sciocco.
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