Me ne rattristai tanto che potei dir soltanto, smarrito e goffo: «No, Agnese, non così. No, sorella cara!»
Ma Agnese m’era di tanto superiore in forza di carattere e di propositi, come so bene ora, ne sapessi molto o poco allora, da non avere gran bisogno delle mie suppliche. Riprese di nuovo le sue maniere calme e dolci, che nei miei ricordi la fanno così diversa da tutte le altre, e parve che una nuvola se ne andasse da un cielo sereno.
– Probabilmente non avremo l’agio di star soli molto più a lungo, – disse Agnese; – e mentre n’ho il destro, lasciate che io vi supplichi vivamente, Trotwood, d’esser benevolo, con Uriah. Non lo respingete. Non siategli (come credo ne abbiate tendenza) nemico per ciò che non vi piace in lui. Egli forse non lo merita, perché non ci consta nulla di male a suo carico. In qualunque caso, pensate prima a papà e a me.
Agnese non ebbe tempo di aggiungere altro, perché la porta si spalancò, e la signora Waterbrook, che era una donna abbondante – o che portava una veste abbondante: non saprei dire esattamente se fosse lei o l’abbigliamento, perché non distinguevo tra l’abbigliamento e lei, entrò a vele spiegate. Avevo un vago ricordo di averla vista a teatro, come se l’avessi scorta in una pallida proiezione di lanterna magica; ma ella mostrò subito di ricordarsi perfettamente di me, e di sospettare che fossi ancora in istato di perfetta ebbrezza.
Ma scoprendo gradatamente che non avevo bevuto, e che ero (voglio sperare) un giovane a modo, la signora Waterbrook si rammorbidì sensibilmente a mio riguardo, domandandomi, prima di tutto, se andassi a passeggiar spesso nei parchi, e, secondo, se frequentassi molto la società elegante.
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