Qualche cosa dell’energia messa nell’accensione di quelle scintille, e qualche cosa nell’occhiata che mi volse, parlando, mi avevano fatto balzare come se lo avessi visto illuminato da una fiamma. Scosso dalla sua domanda, pronunciata con un tono assolutamente diverso, feci gli onori del recipiente per la barba; ma con la mano che mi tremava, con l’improvviso sentimento di non potergli stare a pari, e un’ansia sospettosa di ciò che avrebbe detto fra poco, che mi accorsi non sfuggivano alla sua osservazione.
Egli non diceva più nulla. Agitava il caffè col cucchiaio, ne beveva un sorso, si palpava il mento con la mano scarna, guardava il fuoco, guardava la stanza, mi faceva una smorfia a bocca aperta sotto forma di sorriso, si contorceva nella sua deferenza servile, ma lasciava a me la cura di riannodare la conversazione.
– Così il signor Wickfield – dissi io finalmente – che vale cinquecento volte più di voi... o di me; – non avrei potuto fare a meno, ad ogni costo, dal dividere quella parte della frase con un gesto indignato – s’è mostrato imprudente, signor Heep?
– Oh, veramente imprudentissimo, signorino Copperfield – rispose Uriah, sospirando. – Oh, molto, molto imprudente! Ma vorrei che mi chiamaste Uriah, di grazia, come una volta.
– Bene, Uriah! – dissi, pronunciando la parola con qualche difficoltà.
– Grazie – egli rispose, con fervore. – Grazie, signorino Copperfield! E come il soffio d’una antica brezza o il suono delle campane d’una volta sentirvi dir Uriah. Scusatemi. Dicevo qualche cosa?
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