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      Il materasso del canapè, benché troppo corto per quel perticone, i guanciali del canapè, una coperta, il tappeto della tavola, un mensale pulito, e un soprabito, gli formarono il letto e la coltre, ed egli se ne mostrò più che soddisfatto. Datogli un berretto da notte, che egli si mise subito, e sotto il quale m’apparve così straordinariamente brutto, che d’allora non ne ho mai più portati, lo lasciai a riposare.
      Non dimenticherò mai quella notte. Non dimenticherò mai come mi voltassi e rivoltassi nel letto; come mi tormentassi pensando ad Agnese e a quel mostro; come riflettessi a quello che potessi e dovessi fare; come non mi riuscisse di arrivare ad altra conclusione che a questa: che il miglior partito da seguire per la pace di lei si fosse di non far nulla, e di tener gelosamente nascosto tutto quanto avevo appreso. Se m’addormentavo per pochi momenti, l’immagine di Agnese con i suoi teneri occhi e quelli di suo padre, che la contemplavano appassionatamente come eran soliti contemplarla, si levavano innanzi a me in atto supplichevole, e mi riempivano di vaghi terrori. Quando mi svegliavo, il ricordo, che Uriah dormiva nella stanza attigua, m’opprimeva come un incubo; m’affannava con una strana paura, come se avessi un demonio di immonda specie per ospite.
      Nel mio sonno era entrato anche l’attizzatoio e non voleva uscirne. Pensavo, nel dormiveglia, che fosse ancora arroventato, che lo avessi tratto dal fuoco, attraversando con esso il corpo dell’ospite da banda a banda. Ero così invasato da questa idea, benché la sapessi senza alcun fondamento, che mi trassi pian piano fino alla stanza attigua a contemplare il dormiente.


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





Agnese Agnese Uriah