Eccolo lì, allungato sulla schiena, con le gambe distese che non si vedeva fin dove, con la gola che gli gorgogliava, il naso che ora respirava ora taceva, e la bocca spalancata come una buca delle lettere. Era tanto più brutto nella realtà che nella mia immaginazione scomposta che dopo fui attratto verso di lui per quello stesso sentimento di ripulsione che m’ispirava, non resistendo a spingermi fin lì quasi ogni mezz’ora per dargli un’altra occhiata. E la lunga, lunghissima notte sembrava più uggiosa e più disperata che mai, e nel cielo non traluceva alcuna promessa di giorno.
Quando la mattina presto lo vidi andarsene giù per le scale (perché grazie al Cielo, non volle rimanere a colazione), mi parve che la tenebra se ne andasse via con lui. Quando uscii per recarmi al Commons, raccomandai particolarmente alla signora Crupp di lasciare le finestre aperte perché il salotto si potesse aerare e disinfettare d’ogni contatto di quella presenza.
XXVI.
CADUTO IN ISCHIAVITÙ
Non vidi più Uriah Heep fino al giorno della partenza di Agnese. Ero andato all’ufficio della diligenza per salutarla e vederla partire; e vi ritrovai anche lui, che tornava a Canterbury con lo stesso mezzo. Mi fu almeno di qualche soddisfazione mirar quel suo misero soprabito color tabacco, alto di spalle, corto di vita, accoccolato sul sedile in fondo all’imperiale, in compagnia d’un ombrello vasto come una piccola tenda, mentre Agnese stava, naturalmente, nell’interno; ma forse meritavo quel piccolo compenso per la pena sofferta nello sforzo di mostrarmigli cortese in presenza d’Agnese.
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