«Qui passeggia sola la signorina Spenlow – pensai. – Che bellezza!».
Entrammo nella casa, allegramente illuminata, e in un vestibolo gremito d’ogni specie di cappelli, cappellini, soprabiti, scialli, guanti, staffili e mazze.
– Dov’è la signorina Dora? – disse il signor Spenlow al domestico.
«Dora! – pensai. – Che bel nome!».,
Entrammo in una sala attigua (credo che fosse l’identica sala da pranzo resa memorabile dal vino bruno dell’India Orientale) e sentii una voce dire: «Signor Copperfield, mia figlia Dora, e l’amica di fiducia di mia figlia Dora». Senza dubbio era la voce del signor Spenlow, ma non la riconobbi e non mi curai di saper di chi fosse. Tutto avvenne in un momento. Il mio destino s’era compiuto. Ero schiavo e prigioniero. Amavo Dora Spenlow alla follia!
Ella mi parve più che un essere umano. Era una fata, una silfide, non so che fosse – un non so che, che nessuno aveva visto mai, e che tutti cercavano ardentemente. Fui in un istante inghiottito in un abisso d’amore. Senza una sosta sull’orlo; senza uno sguardo giù, o uno sguardo indietro; ero precipitato a capofitto, prima di aver lo spirito di dirle una parola.
– Ho già conosciuto il signor Copperfield, io – osservò una voce che ben ricordavo, quando ebbi fatto un inchino e mormorato non so quali parole.
Non era stata Dora a parlare. No: l’amica di fiducia, la signorina Murdstone.
Non credo che mi meravigliassi di quell’incontro. Mi sembra che avessi perduto la facoltà di meravigliarmi. Non era possibile meravigliarsi d’altro in questo mondo corporeo, che di Dora Spenlow.
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