L’idea di vestirsi, o di far qualunque altra cosa che implicasse un’azione, era un po’ troppo ridicola in quel fervore d’amore. Potei solo rimanermene innanzi al fuoco, mordendo la chiave della valigetta, e pensando all’amabile, seducente, capricciosa e radiosa Dora. Che forme che aveva, che viso che aveva, che leggiadre, varie e incantevoli maniere!
La campana sonò una seconda volta così presto che trattai il mio vestito come un’insalata, invece di operare con la diligenza richiesta dalla circostanza, e corsi da basso a precipizio. V’erano altri ospiti. Dora parlava con un vecchio signore dalla testa grigia. Grigio com’era – e bisavolo per giunta, com’egli narrò – mi sentii pazzamente geloso di lui.
Ahi, la condizione del mio spirito! Ero geloso di tutti. Non potevo sopportar l’idea che altri conoscesse meglio di me il signor Spenlow. Mi straziava sentir qualcuno parlar con lui di avvenimenti nei quali non avevo avuto alcuna parte. Quando una persona molto gentile, dal cranio calvo e lucidissimo, seduta a tavola di fronte a me, mi chiese se quella fosse la prima volta che visitavo la villa, sarei stato capace di rispondergli con un atto di selvaggia vendetta.
Tranne Dora, non ricordo affatto chi ci fosse. Non ho la minima idea di ciò che ebbi a pranzo, oltre Dora. Ho l’impressione che desinassi esclusivamente di Dora, e mandassi via cinque o sei piatti senza assaggiarli. Le sedevo accanto. Le parlavo. Ella aveva una vocina soavissima, il più lieto sorrisetto, i vezzi più incantevoli e affascinanti, che mai fossero serviti a trarre un giovane smarrito nello stato della più disperata schiavitù. Era piuttosto piccola.
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