Arrivando nel vestibolo, incontrai il suo cagnolino, che si chiamava Jip – diminutivo di Gipsy. Gli andai da presso teneramente, perché volevo bene anche a lui; ma esso mi mostrò tutti i suoi denti, andò a ficcarsi sotto una sedia a bella posta per ringhiare, e non volle saperne della minima mia carezza.
Il giardino era freddo e solitario. Mi misi a passeggiare immaginando che grande felicità sarebbe stata la mia, se avessi potuto mai fidanzarmi a quella cara meraviglia. Quanto al matrimonio, al patrimonio e simili cose, credo che allora avessi la stessa innocenza di quando volevo bene all’Emilietta, e non ci pensassi minimamente. Avere il permesso di chiamarla «Dora», di scriverle, volerle bene, adorarla, aver ragione di pensare che quand’ella era con altri pensasse ancora a me, mi sembrava fosse il colmo dell’ambizione umana: certo era il colmo della mia. Non c’è alcun dubbio ch’ero un giovane spasimante sentimentale e sciocco; ma in tutto ciò v’era una purezza di cuore che m’impedisce di ridere di quei ricordi, per quanto mi sforzi di riderne.
Era da poco che passeggiavo, quando, a una svolta, me la incontrai a faccia a faccia. Sento di nuovo un tuffo al sangue, se con la fantasia giro quella svolta, e la penna mi trema in mano:
– Siete... siete... uscita presto, signorina Spenlow – dissi.
– È così noioso stare in casa – ella rispose – e la signorina Murdstone è così originale! Dice tante sciocchezze sulla necessità che l’aria sia ben purificata prima di uscire. Purificata! (Rise, qui, nella maniera più melodiosa.
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