Son soddisfatto pensando che se il signore e la signora Micawber avessero dovuto vendere il letto per imbandire il festino, non avrebbero potuto divertirsi di più. Traddles rise cordialmente, in tutto il tempo, mangiando e lavorando. E tutti così, tutti insieme; e potrei dire che non vi fu mai un successo maggiore.
Eravamo al colmo della gioia, e tutti febbrilmente occupati, nelle nostre diverse sezioni, sforzandoci di portare l’ultima cotta di fette a un punto di perfezione da coronare la festa, quando m’accorsi della presenza d’un estraneo nella stanza, e i miei occhi incontrarono quelli del grave Littimer, ritto col cappello in mano innanzi a me.
– Che c’è? – chiesi involontariamente.
Vi domando scusa, signore, mi s’è detto di entrare. Il mio padrone non è qui, signore?
– No.
– Non l’avete veduto, signore?
– No: non eravate con lui?
– Per il momento no, signore.
– Che, v’ha detto che l’avreste trovato qui?
– Non proprio così, signore. Ma credo che sarà qui domani, se non è venuto oggi.
– Arriva da Oxford?
– Scusatemi, signore – egli rispose rispettosamente; – voi accomodatevi, e lasciate a me la cura di tutto. Così dicendo, mi tolse di mano la forchetta, che io gli lasciai senza resistenza, e si chinò sulla graticola, come per concentrarvi tutta la sua attenzione.
Non ci saremmo molto sconcertati, direi, anche se fosse comparso Steerforth, ma innanzi al suo rispettabile domestico diventammo a un tratto gli esseri più timidi e sommessi del mondo. Il signor Micawber, canticchiando un’arietta, per mostrar di starsene a suo agio, si adattò al suo posto, col manico d’una forchetta nascosta in fretta che gli usciva dal seno dell’abito, come se si fosse trafitto.
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