«Ella sta sonando l’arpa», disse Steerforth, piano, avvicinandosi alla porta del salotto, «e nessuno, tranne mia madre, l’ha sentita sonare da più di tre anni». Lo disse con un curioso sorriso, che scomparve subito; ed entrammo nel salotto, dove Rosa era sola.
– Non t’alzare – disse Steerforth (ma ella era già in piedi); – mia cara Rosa, non t’alzare. Sii buona una volta, e cantaci una canzone irlandese.
– Che t’importa d’una canzone irlandese? – ella rispose.
– Molto! – disse Steerforth. – Molto più che non credi. C’è qui anche Margherita a cui piace infinitamente la musica. Cantaci una canzone irlandese, Rosa. Io me ne starò qui seduto ad ascoltarti come una volta.
Egli non toccò né lei, né la sedia dalla quale ella s’era levata, ma si sedette accanto all’arpa. Rosa rimase per qualche istante in piedi, in singolare maniera, facendo l’atto di sonar lo strumento, ma senza sonarlo. Finalmente si sedette, e trasse a sé l’arpa improvvisamente, e si mise a sonare e a cantare.
Non so se fosse la maniera di sonare o la voce che desse a quella canzone un tono soprannaturale, non mai più udito o immaginato. V’era qualcosa di terribile nella sua realtà. Era come se non fosse mai stata scritta o messa in musica, ma zampillasse da un fervore spirituale, che pur trovava un’imperfetta espressione nei suoni bassi della voce, e si rannicchiava nell’ombra quando tutto era silenzio. Io ero muto, quand’ella si appoggiò di nuovo accanto all’arpa, facendo ancor con la destra l’atto di sonarla, senza toccar le corde.
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