Ma subito scopersi, riparata al di sotto, la signorina Mowcher.
Non sarei stato disposto a ricevere gentilmente quel diminutivo di donna se, al rimuovere l’ombrello, che tutti i suoi sforzi non riuscivano a chiudere, ella m’avesse mostrato quella volubile espressione di viso, che, nel mio primo e ultimo incontro con lei, m’aveva fatto tanta impressione. Invece il suo volto nell’atto che si volgeva verso di me era improntato a tanta gravità, ed ella si torse le mani in maniera così desolata, dopo che l’ebbi liberata dall’ombrello (il quale avrebbe impacciato perfino il Gigante irlandese), che non potei fare a meno di mostrarmele ospitale.
– Signorina Mowcher! – esclamai, dopo aver dato una occhiata da un lato e l’altro della via deserta, senza sapere distintamente che sperassi di vedervi. – Come state? Che cosa c’è?
Ella mi fece cenno con la destra di chiuderle l’ombrello, e passandomi in fretta accanto, entrò nella cucina. Quando, richiusa la porta, la seguii, con l’ombrello in mano, la trovai seduta nell’angolo del parafuoco – che era di ferro e basso e aveva di sopra due spranghe quadrangolari per posarvi i piatti – all’ombra della caldaia, nell’atto di oscillare innanzi e indietro e di stringersi le ginocchia con le mani, come una sofferente.
Veramente impensierito d’esser solo a ricevere quella visita fuor d’ora, e di trovarmi unico spettatore di quello strano contegno, dissi di nuovo:
– Vi prego di dirmi, signorina Mowcher, che c’è? Vi sentite male?
– Anima bella – rispose la signorina Mowcher, premendosi sul cuore le mani, l’una sul l’altra, – io sto male, molto male.
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