Credo che quell’indovinello, per me incomprensibile, si riferisse alla luna. Comunque si fosse, io, schiavo lunatico di Dora, girai due ore intorno alla casa e al giardino, guardando a traverso gli spiragli del giardino, arrivando con una serie di violenti sforzi a sporgere il mento sui ferri rugginosi della cancellata, inviando baci ai lumi nelle finestre, e romanticamente, di tanto in tanto, invocando la notte perché difendesse la mia Dora – non so esattamente da che, forse dal fuoco, forse dai topi, dei quali ella aveva una paura indicibile.
Ero così pieno dell’amor mio, ed era così naturale che io mi confidassi con Peggotty, quando la sera me la trovai di nuovo accanto, occupata, con tutti i suoi vecchi strumenti di lavoro, a passare in rassegna il mio guardaroba, che la misi a parte, con molte perifrasi, del mio gran segreto. Peggotty prese vivamente a cuore la cosa, ma assolutamente non mi riuscì di fargliela guardare dal lato da cui la vedevo io. Essa si mostrò audacemente prevenuta in mio favore, e per nulla affatto in grado di comprendere perché io fossi preda di ansie, di timori e di scoramenti. «La ragazza deve ritenersi fortunatissima d’avere un simile innamorato», ella osservava. «E quanto a suo padre», aggiungeva, «per amor di Dio, che cosa pretenderebbe di più?».
Notai però, che la toga di procuratore del signor Spenlow e la cravatta inamidata confusero un po’ Peggotty e le ispirarono maggior rispetto per l’uomo che diventava gradatamente, giorno per giorno, sempre più etereo agli occhi miei, e dal quale mi sembrava, vedendolo seduto impettito in Corte fra i suoi incartamenti, raggiasse un riflesso luminoso, come da un piccolo faro in un mare di carte.
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