Potevo non invocare una tacita benedizione sulla testa della signorina Mills, e non riporre l’indirizzo della signorina Mills nel cantuccio più sicuro della mia memoria? Potevo non dire alla signorina Mills, con sguardi pieni di gratitudine e con fervide parole, il conto che facevo dei suoi buoni uffici, e il valore inestimabile che attribuivo alla sua amicizia?
Allora la signorina Mills mi congedò benevolmente, dicendomi: «Tornate da Dora!» e io tornai da Dora; e Dora si sporse dallo sportello per parlarmi per tutto il resto della strada: e io cavalcavo sul mio bel corsiero così accosto alla ruota, che questa gli scorticò un ginocchio, e «gli tolse la buccia», come mi disse il suo proprietario, «per un valore di tre sterline e più» che io dovetti pagare, giudicandole una vera miseria per tanta gioia. Nel frattempo, la signorina Mills stava contemplando la luna, recitando versi e ricordando, credo, gli antichi giorni quando lei e la terra avevano qualche cosa in comune.
Norwood era molte, troppe miglia vicino, e vi giungemmo molte ore troppo presto; ma il signor Spenlow si riscosse un po’ prima, e mi disse «Voi, Copperfield, dovete entrare a riposarvi», e io acconsentii, e ci fu una distribuzione di tartine e di vino e acqua. Nella stanza illuminata, il rossore di Dora mi parve così amabile, che io non riuscivo a staccarmi di lì. Rimasi piantato a contemplarla, come in sogno, finché il russare del signor Spenlow non mi ispirò abbastanza coscienza da congedarmi. Così ci separammo: e io cavalcai verso Londra, sentendo ancora il tocco della mano di Dora sulla mia, ripensando a ogni cenno e a ogni parola di lei, diecimila volte; e così perfettamente incantato e incitrullito al momento di poter finalmente andare a letto, come mai nessun forsennato per amore.
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