Quando mi svegliai la mattina appresso ero risoluto di dichiarare la mia passione a Dora, e di conoscere il mio destino. Era una questione di felicità o d’infelicità. E, a quel che sapevo, era l’unica al mondo, e solo Dora poteva trovarle una soluzione. Passai tre giorni in un mare di angoscia, torturandomi, dando ogni possibile varietà d’interpretazione sfavorevole a quanto si era svolto fra Dora e me. Finalmente, abbigliato per il mio proposito con gran dispendio, m’avviai dalla signorina Mills, carico d’una dichiarazione.
Quante volte facessi su e giù la strada, e il giro della piazza – sentendo vivamente che io meglio della luna ero la parola di risposta al vecchio indovinello – prima di persuadermi a salir i gradini e picchiare, non importa dire. Anche dopo che, finalmente, ebbi picchiato, e attendevo alla porta, mi venne per un istante il pensiero di chiedere se abitasse lì il signor Blackboy (seguendo l’invenzione del povero Barkis), di scusarmi, e d’andarmene. Ma non sloggiai dalla posizione.
Il signor Mills era uscito di casa. Non m’aspettavo che ci fosse. Nessuno aveva bisogno di lui. Ma c’era a casa la signorina. Benissimo! Era quello che ci voleva.
Fui guidato in una stanza al di sopra, dov’erano la signorina Mills e Dora. C’era anche Jip. La signorina Mills era occupata a copiare un pezzo di musica (uno nuovo, ricordo, intitolato l’Elegia dell’affetto) e Dora dipingeva dei fiori. Qual non fu il mio sentimento vedendo che erano i miei fiori, l’identico mio acquisto del mercato di Covent Garden?
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