Non ho fatto mai ballare i gatti, io. Perciò, che vuoi che me ne importi?».
Tentai di accertarmi se il signor Dick avesse in qualche modo compreso le cause di quell’improvviso e grande mutamento nelle faccende di mia zia. Ma com’era da aspettarselo, non se n’era reso affatto conto. Il solo cenno che seppe darmene si fu che l’antivigilia mia zia gli aveva detto: «Ora, Dick, sei veramente e seriamente così filosofo come ti credo?» Allora egli aveva detto: «Sì, lo spero». Allora mia zia aveva detto: «Dick, io sono rovinata». E a questo, egli aveva risposto: «Oh, davvero!» E allora mia zia gli aveva fatto un grande elogio, del quale egli s’era molto compiaciuto. E allora erano partiti, e in viaggio avevano bevuto della birra e mangiato dei panini gravidi.
Il signor Dick era così lieto mentre mi narrava questo, guardandomi con gli occhi spalancati e un sorriso di sorpresa, e standosene a piè del letto a lisciarsi una gamba, che, mi spiace di dirlo, fui costretto a spiegargli che rovina voleva dire miseria, bisogno, fame; ma poi mi pentii amaramente della mia temerità, perché lo vidi diventar pallido, e allungar le guance e piangere, mentre fissava su di me uno sguardo di tale ineffabile angoscia che avrebbe intenerito un cuore più crudele del mio. Durai gran fatica a risollevarlo, molto più che ad abbatterlo; e subito compresi (come avrei dovuto comprendere fin dal principio) che egli si era mostrato così incurante, sol perché aveva un’incrollabile fede nella più saggia e meravigliosa delle donne, e una fiducia illimitata nelle mie facoltà intellettuali; che egli considerava tali, da trionfare di ogni specie di disastro non assolutamente mortale.
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