– Non è una sventatella? – disse mia zia.
– Sventatella, zia! – potei solo fare eco a quella domanda con lo stesso sentimento col quale avevo ripetuto la precedente.
– Bene, bene! – disse mia zia. – Domando soltanto. Non intendo di fare torto. Povera coppietta! E così voi credete d’esser nati l’un per l’altro, e di dover condurre una vita inzuccherata, come due chicche su una torta, non è vero, Trot?
Mi interrogava con tanta gentilezza, con un’aria così scherzosa e insieme melanconica, che io ne fui veramente commosso.
– Noi siamo giovani e inesperti, lo so, zia – risposi – e forse diciamo e pensiamo cose che non sempre son sensate; ma è certo che ci vogliamo molto bene. Se pensassi che Dora potesse mai voler bene a qualcun altro, o cessare di volermene; o che io potessi mai voler bene a qualche altra o cessare di volergliene; non so che farei... diventerei pazzo, credo.
– Ah, Trot! – disse mia zia, scotendo il capo e sorridendo gravemente. – Cieco, cieco, cieco! C’è qualcuno che io conosco, Trot – continuò mia zia, dopo una pausa – che, nonostante la dolcezza del suo carattere, possiede una vivacità d’affetto che mi rammenta la sua povera madre. Quel qualcuno deve cercare una persona seria che lo possa sostenere e aiutare, Trot: un carattere saldo, sincero, costante.
– Se voi conosceste la serietà di Dora, zia! – esclamai.
– Oh, Trot! – essa disse di nuovo. – Cieco, cieco! – E senza saper perché, mi parve vagamente di avvertire una grave perdita, la perdita di qualche cosa che si celasse dietro una nuvola.
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