Speravo che questo energico trattamento m’avrebbe rinfrescato un po’ lo spirito; e credo che mi facesse bene, perché presto arrivai alla conclusione che il primo passo da fare fosse di tentare di far annullare il contratto stretto col signor Spenlow e di ricuperare la somma versatagli. Feci colazione nella brughiera, e, intento in questo mio primo sforzo di far fronte ai mutamenti avvenuti nelle nostre condizioni, ritornai a piedi al Doctor’s Commons, per strade ancora umide della guazza notturna, in mezzo al piacevole odore dei fiori estivi che s’aprivano nei giardini o di quelli che portavano i rivenditori in testa verso la città.
Arrivai allo studio così presto, dopo tutto, che ebbi il tempo di gironzare un’oretta intorno al Commons, prima che il vecchio Tiffey, il quale era sempre il primo ad arrivare, apparisse finalmente con la chiave. Allora andai a sedermi nel mio cantuccio, all’ombra, guardando i riflessi del sole sui vasi del caminetto di fronte, e pensando a Dora, finché non entrò il signor Spenlow tutto azzimato e arricciato.
– Come state, Copperfield? – egli disse. – Che bella giornata!
– Bella giornata, sì, signore! – dissi. – Potrei dirvi una parola prima che andiate in Corte?
– Altro che! – egli disse. – Venite nella mia stanza.
Lo seguii nel suo gabinetto, dove cominciò col mettersi la toga, e darsi una lisciatina innanzi a un piccolo specchio sospeso dietro lo sportello d’un armadio.
– Mi rincresce di dirvi – cominciai – che ho ricevuto delle brutte notizie da mia zia.
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