Signorina Agnese, sempre vostro. Vi auguro il buongiorno, signorino Copperfield, e vi lascio i miei ossequi per la signora Betsey Trotwood.
E se ne uscì dicendo questo, e baciandosi la mano, con un sorriso da maschera.
Noi rimanemmo a parlare un’ora o due dell’antico beato tempo di Canterbury. Il signor Wickfield, solo con Agnese, tosto riprese l’aria d’una volta, benché in lui vi fosse certo abbattimento dal quale non si riscoteva mai. Nonostante questo, però, egli si fece radioso, e ascoltò piacevolmente commosso i piccoli episodi della nostra vita che, in gran parte, ricordava benissimo. Disse che gli sarebbe piaciuto riviverli di nuovo in compagnia mia e di Agnese; e avrebbe desiderato che quel tempo felice non fosse così rapidamente trascorso. Dal sereno viso di Agnese e dallo stesso contatto del braccio di lei sul suo, gli derivava un benessere meraviglioso.
Mia zia (che nel frattempo era stata affaccendata con Peggotty nella stanza attigua) non volle accompagnarci al loro alloggio, ma insisté perché ci andassi io; ed io ubbidii. Desinammo insieme. Dopo, Agnese si sedette accanto a suo padre, come una volta, e gli versò il vino. Egli prese ciò che ella gli dava, non più – come un bambino – e tutti e tre ci sedemmo accanto alla finestra, mentre nella stanza entrava la sera. Quando annottò, egli si stese su un divano, e Agnese gli mise un guanciale sotto il capo, e stette un po’ china su di lui. Tornata alla finestra, potei scorgerle, all’ultimo chiarore del crepuscolo, gli occhi inumiditi di lagrime.
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