Mostrai il pugno a Jip, che era più frenetico di me. Commisi tutte le stravaganze possibili ed impossibili, ed ero già al colmo della disperazione, quando la signorina Mills fece il suo ingresso nel salotto.
– Che è stato? – esclamò la signorina Mills, soccorrendo l’amica.
Risposi: «Io, Signorina Mills. Sono stato io! Guardate il colpevole!» e altre parole simili, e mi nascosi il viso nel guanciale del canapè.
Prima la signorina Mills pensò che ci fossimo bisticciati, e che fossimo arrivati sull’orlo del deserto di Sahara; ma presto comprese lo stato delle cose, perché la mia dolce ed affettuosa Dora, abbracciandola, cominciò a dire che io ero un «povero lavoratore»; e poi pianse sulla mia sorte, e mi abbracciò, e mi chiese di conservarle tutto il suo denaro, e poi s’abbandonò sul collo della signorina Mills, singhiozzando come se il suo cuoricino si fosse infranto.
La signorina Mills forse era nata per la nostra felicità. Ella volle sapere da me in poche parole di che si trattasse, consolò Dora, e gradatamente le fece capire che io non ero un lavoratore – dalla mia maniera di parlare credo che Dora avesse concluso che fossi un marinaio, e salissi e scendessi lungo una passerella tutto il giorno – e così ci fece far la pace. Quando ci fummo completamente rimessi, e Dora andò su a spruzzarsi un po’ d’acqua di rosa sugli occhi, la signorina Mills fece servire il tè. Nell’intervallo che seguì, dissi alla signorina Mills che ella era più che mai mia amica, e che il mio cuore doveva cessare di battere, prima che potessi dimenticare la sua simpatia.
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