I cambiamenti che potevano farsi nei punti, che in una certa posizione significavano una cosa e in una certa altra qualche altra interamente diversa; le meravigliose stravaganze rappresentate dai circoli; le ingiustificabili conseguenze che risultavano da segni come zampe di mosca; i terribili effetti d’una curva in un posto errato; non solo turbavano le mie ore di veglia, ma mi riapparivano in sogno. Quando mi fui aperta la via a tentoni in mezzo a queste difficoltà, e fui padrone dell’alfabeto, che era per sé solo considerato un tempio egiziano, ecco una processione di nuovi orrori chiamati caratteri arbitrari: i caratteri più dispotici mai conosciuti; i quali pretendevano, per esempio, che una cosa come il principio d’una ragnatela significasse speranza, e che uno schizzo di inchiostro volesse dire svantaggioso. Quando mi fui radicato in mente quei geroglifici, m’accorsi che essi avevano cacciato via tutto il resto; allora, cominciando da capo, li dimenticai; mentre li stavo pazientemente raccogliendo un’altra volta, lasciai cadere gli altri frammenti del sistema: insomma era cosa da morire per la disperazione.
Sarebbe stato da morire per la disperazione, se non avessi avuto il pensiero di Dora, che era la meta e la vetta del mio aspro viaggio. Ogni scarabocchio del sistema era una nuova quercia nodosa nella foresta delle difficoltà, e continuai ad abbatterle l’una dopo l’altra con tale vigore che in tre o quattro mesi ero in condizione di fare un esperimento nel Commons, su uno dei nostri famosi oratori.
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Dora Commons
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