Andavo sempre puntualmente all’ufficio; dal dottore anche; e veramente lavoravo come un facchino.
Un giorno, recandomi come il solito al Commons, incontrai sulla soglia il signor Spenlow, che aveva un aspetto grave e mormorava qualche cosa fra i denti. Siccome si lagnava sovente di soffrir di mal di capo – in verità aveva il collo torto e portava solini troppo inamidati – mi venne in principio l’idea ch’egli non si sentisse bene; ma su questo punto fui tosto rassicurato.
Invece di rispondere al mio «buongiorno» con la sua usuale affabilità, mi guardò con aria altera e cerimoniosa, e freddamente m’invitò ad accompagnarlo a un certo caffè, che, in quel tempo, aveva una porta nel Commons, appunto nella piccola arcata del Cimitero di San Paolo. Obbedii, in uno stato di grande turbamento, invaso da un brivido caldo, come se tutti i miei timori stessero per scoppiarmi sulla pelle; Quando rimasi un po’ indietro, perché la via era angusta, osservai che il modo con cui egli portava la testa non annunciava nulla di buono; ed ebbi a un tratto il dubbio che avesse scoperto qualche cosa intorno alla mia diletta Dora.
Se non l’avessi sospettato, andando verso il caffè, l’avrei certamente indovinato nel momento che lo seguii in una stanza superiore, dove trovai la signorina Murdstone, appoggiata a una specie di credenza, sulla quale erano parecchi bicchieri rovesciati che sostenevano dei limoni, e due di quelle scatole straordinarie, tutte angoli e scanalature, per ficcarvi i coltelli o le forchette, le quali, per fortuna dell’umanità, sono ora completamente passate di moda.
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