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      Ma ciò che non posso descrivere si è come, negl’intimi recessi del cuore, io sentissi una gelosia segreta perfino della morte; come mi sembrasse che la sua potenza mi cacciasse via dal pensiero di Dora; come fossi invidioso perfino del suo dolore, in modo che non saprei ridire; come soffrissi al pensiero che ella piangeva lontano da me e che altri la consolava; come avessi la tremenda egoistica brama di separarla da tutti, tranne che da me, e d’esserle tutto in tutto, proprio in quei momenti così poco propizi. In quel mio stato di turbamento – non esclusivamente e specialmente mio, spero, ma sperimentato anche da altri – mi recai quella , sera a Norwood; e apprendendo da un domestico alla porta, che in casa c’era la signorina Mills, le feci indirizzare da mia zia una lettera che scrissi io. Lamentai sincerissimamente la improvvisa morte del signor Spenlow, e piansi nello scriverne. La supplicai di dire a Dora, se Dora era in grado di dare ascolto, che egli mi aveva parlato con la massima cortesia e il massimo riguardo; e che non aveva parlato di lei che con tenerezza, senza neppure una minima parola di rimprovero. Sapevo che facevo questo con uno scopo egoistico, perché si parlasse di me a Dora; ma mi sforzai di credere che compivo un atto di giustizia verso la memoria del defunto. E forse lo credevo.
      Il giorno dopo mia zia ricevé poche righe di risposta; indirizzate, di fuori, a lei, e dentro, a me. Dora era affranta dal dolore; e quando la sua amica le aveva chiesto se volesse mandarmi i suoi affettuosi saluti, aveva solo esclamato fra le lagrime, come sempre esclamava: «Oh, caro papà mio!


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





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