Molti prigionieri mi furono condotti in questo modo. Quanto alle licenze di matrimonio, la gara era così accanita, che se a un povero diavolo di natura timida ne occorreva una, egli non aveva da far altro che sottomettersi al primo che lo acchiappava, per non esser centro d’una battaglia e diventar preda del più forte. Un nostro scrivano, che faceva nello stesso tempo quel mestiere, stava sempre col cappello in testa per esser pronto a precipitarsi fuori in un batter d’occhio e far giurare innanzi a un sostituto la prima vittima che si presentasse. Questo sistema di persecuzione credo viga anche oggi. L’ultima volta che fui al Commons, un individuo molto cortese, in grembiule bianco, mi saltò addosso da una porta, e bisbigliandomi nell’orecchio le parole «licenza di matrimonio», fece l’atto di pigliarmi e portarmi in braccio fin nello studio d’un procuratore.
Da questa digressione, procediamo a Dover.
Al villino trovai ogni cosa in istato soddisfacente; e fui in grado di letificare grandemente mia zia col riferirle che il locatario aveva ereditato le sue antipatie, ed era in continua guerra con gli asini. Avendo regolato la piccola faccenda che avevo da regolarvi, e dormito la notte a Dover, mi levai presto la mattina, e raggiunsi a piedi Canterbury. Era di nuovo l’inverno, e il vento freddo e pungente, che spazzava la duna invigorì un po’ le mie speranze.
Giunto a Canterbury, errai per le vecchie strade con un piacere sobrio, che mi calmò lo spirito, mi alleggerì il cuore. V’erano le stesse insegne, gli stessi nomi sulle botteghe, le stesse persone dentro.
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