Il signor Wickfield scambiò con me i suoi saluti, mentre Uriah se ne rimaneva innanzi al fuoco scaldandosi la schiena, e stropicciandosi il mento con la mano ossuta.
– Starai con noi, Trotwood, nel tempo che ti tratterrai a Canterbury – disse il signor Wickfield, non senza un’occhiata a Uriah come per domandargli la sua approvazione.
– C’è posto per me? – dissi.
– Certo, signorino Copperfield... dovrei dir signore, ma la parola mi viene così spontanea – disse Uriah: – io son pronto a darvi la vostra antica camera, se vi fa piacere.
– No, no – disse il signor Wickfield. – Perché dovete scomodarvi voi? C’è un’altra camera. C’è un’altra camera.
– Oh, ma lo sapete – rispose Uriah con una smorfia: – ne sarei felicissimo!
Per farla breve, dissi di volere l’altra camera o nessuna; così si stabilì che avrei occupata l’altra, e, congedatomi dai due soci fino all’ora del desinare, tornai da Agnese.
Avevo sperato di trovarla sola. Ma la signora Heep aveva domandato il permesso d’andarsi a sedere, lei e la sua calza, accanto al fuoco in quella stanza, dove non arrivava il vento, come nel salotto e nella sala da pranzo, a rincrudirle i dolori reumatici. Io l’avrei molto volentieri e, senza il minimo rimorso, esposta a tutta la violenza del vento sul pinnacolo più alto della Cattedrale; ma bisognava fare di necessità virtù, e la salutai con tono amichevole.
– Umilmente vi ringrazio, signore – disse la signora Heep, dopo che le ebbi domandato notizia della sua salute; – non c’è male. Non ho di che vantarmi.
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