Che lavoro a maglia fosse, non so, non essendo io esperto di quell’arte; ma m’aveva l’aria d’una rete; e mentre lavorava ai suoi ferri, la signora Heep appariva nel bagliore del focolare in sembianza di una trista maga, trattenuta per il momento dal radioso angelo sedutole di contro, ma lì lì pronta a gettar la sua rete.
A desinare continuò la sua sorveglianza con lo stesso rigore. Dopo desinare, fu la volta di suo figlio; e quando rimanemmo soli io e il signor Wickfield, egli si mise a osservarmi con la coda dell’occhio, contorcendosi nella più odiosa maniera. Nel salotto trovammo la madre, intenta al suo lavoro e alla sua sorveglianza. Quando Agnese, cantò e sonò, la madre se ne stette accanto al pianoforte. Una volta ella chiese ad Agnese di cantare una ballata, per la quale Uriah andava matto (invece Uriah in tutto quel tempo sbadigliò sulla poltrona); poi ella lo guardava e riferiva ad Agnese ch’egli andava in visibilio per la musica. Quasi non apriva mai la bocca senza pronunziare il nome del figlio. Mi parve evidente che quella fosse la consegna avuta.
Si andò innanzi così fino all’ora d’andare a letto. Veder la madre e il figlio volteggiare, come due grandi pipistrelli, in tutta la casa, e abbuiarla con le loro repugnanti forme, mi diede un tale malessere che sarei rimasto da basso, con tutto il lavoro a maglia, piuttosto che andare a letto. Chiusi appena gli occhi. Il giorno appresso il lavoro a maglia e la sorveglianza ricominciarono per durare tutto il giorno.
Non ebbi l’agio di parlare ad Agnese neppure per dieci minuti: fu bazza se potei mostrarle la lettera.
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