Io ero invaso da un’onda d’orgoglio e d’ansia: l’orgoglio della mia cara piccola fidanzata; e l’ansia che Agnese non dovesse piacerle. Per tutta la strada, mentre Agnese stava nell’omnibus e io fuori, non feci che rappresentarmi Dora in ciascuno dei leggiadri aspetti che le conoscevo così bene; ora pensando che mi sarebbe piaciuto vederla come quella volta, e poi dubitando se non avrei preferito invece vederla come quell’altra volta, tanto da aver quasi la febbre in simili alternative.
Ad ogni modo, non avevo alcun dubbio sulla sua leggiadria, ma mi toccò di rilevare che non l’avevo mai vista così bella. Non era nel salotto quando presentai Agnese alle sue piccole zie; per timidezza si teneva nascosta. Sapevo dove andare a cercarla; e la trovai, come immaginavo di certo, dietro la porta, nell’angolo, nell’atto di tapparsi un’altra volta le orecchie.
In principio non voleva venire; e poi mi pregò di aspettare cinque minuti, calcolati al mio orologio. Quando finalmente m’infilò il braccio, per accompagnarmi nel salotto, il suo leggiadro viso era di fiamma, e non m’era sembrato mai così bello. Ma quando entrammo nella stanza, e diventò pallido, era diecimila volte più bella ancora.
Dora aveva paura di Agnese. Mi aveva detto di sapere che Agnese era «troppo saggia». Ma quando la vide così lieta e calma insieme, e così pensosa e così buona, cacciò un piccolo grido di sorpresa e di compiacenza, e le gettò affettuosamente le braccia al collo, baciandola.
Non ero stato mai così felice; non ero stato mai così soddisfatto come nel vederle tutte e due sedute, l’una accanto all’altra.
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