Rimasi un po’ a guardare le stelle a traverso il portico, con un cuore pieno d’amore e di gratitudine, e poi andai innanzi. Avevo fissato una camera in un decoroso alberghetto vicino, e stavo per varcarne l’ingresso, quando, voltando la testa, vidi lo studio del dottore illuminato. Sentii un mezzo rimorso d’averlo lasciato a lavorar solo al dizionario. Con lo scopo di sincerarmene, e, in ogni modo, di dargli la buona notte, se egli era ancora affaccendato fra i libri, tornai indietro, e traversato pianamente il vestibolo, e aprendo cautamente la porta, feci capolino nello studio.
La prima persona che vidi, con mia gran sorpresa, alla tenue luce della lampada velata, fu Uriah. Era seduto accanto alla lampada, con una delle mani scheletriche alla bocca, e l’altra stesa sul tavolo del dottore. Il dottore era seduto nella poltrona e si copriva la faccia con le mani. Il signor Wickfield, profondamente turbato e angosciato, si sporgeva innanzi col corpo e toccava irresoluto il braccio del dottore.
Per un istante, supposi che questi si sentisse male. Con quell’idea, diedi recisamente un passo innanzi, allorché incontrai lo sguardo d’Uriah, e compresi di che si trattava. Feci per ritirarmi, ma il dottore m’accennò di rimanere.
– Ad ogni modo – osservò Uriah, con una contorsione – noi possiamo tener la porta chiusa. Non è necessario divulgarlo a tutta la città.
Così dicendo, andò in punta di piedi alla porta, che avevo lasciata aperta, e attentamente la chiuse. Ritornò, e assunse il suo primo atteggiamento.
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