Prima che riprendessimo il nostro lavoro, Agnese e suo padre erano già via da una settimana. Il giorno prima il dottore mi aveva personalmente consegnato una letterina aperta, a me diretta, nella quale mi raccomandava, con poche affettuose parole, di non fare allusioni al colloquio di quella sera. Io l’avevo riferito a mia zia, ma a nessun altro. Non era cosa di cui potessi parlare ad Agnese, e Agnese non aveva il minimo sospetto di ciò che era accaduto.
E non l’ebbe allora, n’ero sicuro, neppure la signora Strong. Passarono parecchie settimane prima che io notassi in lei il minimo mutamento, che apparve lentamente come una nuvola quando non c’è vento. In principio, sembrò meravigliarsi della pietosa tenerezza con cui il dottore le parlava, e del suo desiderio ch’ella facesse venir la madre, per rompere un po’ la monotonia di quella vita. Spesso, quando noi eravamo al lavoro ed ella ci sedeva accanto, la vedevo ferma a guardare il marito con la memorabile espressione di quella sera. Dopo, a volte, la vedevo levarsi con gli occhi umidi di pianto e uscir dalla stanza. Gradatamente, un’ombra di infelicità velò la sua bellezza, e diventò più densa ogni giorno. La signora Markleham era allora una regolare inquilina della casa; ma essa non faceva che ciarlare, non accorgendosi di nulla.
A misura che avveniva quel lento mutamento in Annie, la quale una volta era come un raggio di sole nella casa del dottore, questi diventava più vecchio all’aspetto e più grave; ma la dolcezza del suo carattere, la placida gentilezza dei suoi tratti, e la sua benevola sollecitudine per lei, erano, se mai, aumentate.
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